Palermo, Alghero
Due gite, due città
PALERMO PALERMO.
Una gita a Ballarò, Sicilia
Palermo, città aperta. Palermo anno zero. A Palermo non si perde neanche un bambino. Palermo o cara. È strana Palermo, è lontana, è esotica, è leggendaria, multietnica, antica, stratificata, romanzata, rotonda e accogliente.
Città ossimorosa. Città amata e depredata. Omertosa e sincera. Oscura e luminosa. Pagana e osservante. Stereotipata e sorprendente. Più vicina al Maghreb che a Reggio Calabria. L’unica città che ha una santa protettrice con due feste all’anno.
L’unica che adora un santo moro. L’unica che ha un dialetto che si confonde con l’arabo e l’unica che canta le canzoni dei neo melodici napoletani come se fossero oriunde. Città di grandi famiglie nobiliari, di palazzi magnificenti, di vie dai nomi evocativi. Cultura e impegno, letteratura e battaglie sociali, politici conniventi e magistrati eroi. Città incomprensibile.
La città che ha permesso in una sola notte la distruzione del quartiere Liberty più affascinante, più ecclettico, più variegato, più bello di tutta l’Italia intera: il famoso Sacco di Palermo che in nome della speculazione edilizia ne ha deturpato per sempre il volto.
Palermo che per l’indifferenza rassegnata ha per sempre privato di storia e bellezza tutte le generazioni nate dopo il 29 dicembre 1959.
“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.” - Diceva Tancredi ne Il Gattopardo. Palermo dei Vicerè, e quella de il Giorno della civetta, Marianna Ucria e molto altro. Palermo di Letizia Battaglia, mitica sacerdotessa di Palermo.
Niente di programmato se non “…vediamo, vi porto a Ballarò e al mercato del Trovato”.
Passeggiamo alacremente per strade, superiamo vicoli, la via Delle Sedie Volanti una fra tutte, prendiamo scorciatoie per arrivare ad incontrare il palazzo della Cuba e chiese barocche da far impallidire il Vaticano.
All’ingresso di Ballarò c’è la scritta in siciliano che annuncia: “Si vucia, s’abbania, Ballarò è magia”. Ed è vero: Ballarò è un viaggio magico. È Istambul, è Marrakesh, è Napoli, è Tunisi, è l’Havana, è Saigon, è Bankok, è Nairobi, è Zanzibar, è Adis Abeba.
Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi: tavoloni pieni di zucchine giganti che sembravano canne da zucchero vendute da uomini giganteschi di color nero splendente con capelli a treccine, come quelli di mio figlio Leo, che parlavano un misto di inglese italiano e siciliano.
Ho visto montagne di cavolfiori e montagne di foglie residuali di cavolfiore, melanzane, patate, zucche di tutte le misure, cassette di pomodori da riempire una piazza, peperoni, cetrioli, sedano, ceci, lenticchie, fagioli, fagiolini, rapanelli, bietole, carote, cicorie, patate, cipolle fichi d’India, uva, angurie, pesche, albicocche, ciliegie, fragole, nespole, susine, meloni, fichi, lamponi, more, ribes, mirtilli, pere.
E poi spezie di tutti i sapori e colori che neanche hanno inventato il nome, pesci spada a metà, polpi vivi conditi al momento e mangiati, parrucche di tutti i generi, acconciature, treccine e pettinature, foto di Claudio Villa in un caffè, spremute abbondanti a un euro, uova fresche grandi e piccole a dozzine, botteghe di tatuaggi tribali, old school, new school realistici, giapponesi o lettering e tutto tra impalcature di tubi innocenti essenziali perché la maggior parte dei tubi viene rubata dagli zingari che rivendono il ferro, chiese sconsacrate con ingressi sbarrati, palazzi nobiliari decadenti, balconi ben tenuti con piante in vaso verdi rigogliose dove signore ben truccate ci attardano fumando e scrutando l’orizzonte.
Lì abbiamo trovato tutto quanto si può desiderare: quadri, fotografie, spille, libri, tovaglie, sottovesti, coperte, vassoi, statuine, frecce, pinocchi, madonne, piatti e tanta gente piena di voglia di parlare, conoscere e divertirsi.
“Voglio andare ad Alghero”, Sardegna
Alghero è comunità di catalani che qui hanno messo radici, secoli fa, in un avamposto di Sardegna di fronte alla Spagna, dove da sempre si incrociano popoli e culture. Sono passati fenici, punici, romani, greci, bizantini, arabi, francesi, genovesi e, infine, catalani. Tutti hanno lasciato tracce cercando di ridurre a cenere le presenze di chi li aveva preceduti.
Alghero, Barcellonetta per i nostalgici, s’Alighera per i sardi, l’Alguer per noi figli di mercanti e pirati è città fortificata che affonda i bastioni nelle acque del mediterraneo. Algue, sés la mes bella, già Carlo V l’aveva detto “bonita, por mi fé, e bien assentada.
Nella geografia scomposta e anarchica della campagna si riconoscono piccoli torrenti, asciutti d’estate e tortuose stradine che solcano terre in ogni direzione per arrivare a case, poderi, orti, vigne, uliveti, coltivazioni di fave e pascoli di cavallini e asinelli.
Vivere così, fuori dal mondo, per me ha un valore aggiunto. Se nasci ai confini dell’impero sei spinto a dialogare, comunicare, vedere, cercare quel che c’è altrove. Un po’ come la siepe che chiude la vista, ma allo stesso tempo muove lo sguardo ad andare oltre, apre all’infinito. Dal limite nasce il desiderio, il sogno che invita a superare barriere e difficoltà.
La passeggiata più bella, quella che ti apre il cuore anche quando sei di tutt’altro umore, è sui bastioni. Da quello della Maddalena sali gli scalini per quello magellano arrivi alla torre di Sant Elmo, poi per i Pigafetta e Marco Polo e Cristoforo Colombo sempre camminando con il mare sulla destra superi piazza Sulis, villa Mosca, il chioschetto poi el tro’ e las tronas sino al mirador de balaguer, oggi piazza Giuni Russo: non riesco a pensare che si possa avere di più.
Un cielo alto che neanche Parigi, un tramonto che in Africa se lo sognano, un volo di gabbiani che neppure alle Galapagos e sullo sfondo un imponente penisola, caput hermeu, gigante che dorme sul mare mentre il faro illumina come una stella cometa. Facile naufragare.